Siamo alla decima edizione, come è cambiato il Festival della Sociologia?
I cambiamenti sono stati tanti. Il Festival della Sociologia nasce nel 2016 dalla collaborazione tra il Comune di Narni e l'Università di Perugia (Dipartimento Fissuf), e da un'idea di Maria Caterina Federici. La collocazione a Narni è legata alla presenza nella città di due corsi di laurea proprio in Sociologia: Scienze per l'investigazione e la sicurezza, e Scienze socioantropologiche per l'integrazione e la sicurezza sociale. Nel 2019 si è costituita l'Associazione omonima, di cui fanno parte vari soggetti singoli e collettivi, sia nazionali sia locali. In questi anni l'evento ha coniugato il bisogno di consolidamento territoriale con quello di partecipazione sociale e pubblica.
In che senso? Può spiegarsi meglio?
Il nostro è un festival collettivo e mite. C'è stato un cambio di passo nella comunicazione, ma la priorità non è mai il personaggio in voga. Chi partecipa agli eventi incontra altre persone che si occupano a vario titolo di certe questioni emergenti, quest'ultime hanno la priorità. La dimensione corale si ritrova non solo nei diversi sguardi o competenze sui temi ma anche nel programma. Non è un convegno di accademici, ma uno spazio pubblico su temi che ci riguardano tutti nella diversità delle esperienze di vita.
A questo proposito, qual è il tema di quest'anno?
Il tema è "Sentirsi in società". Si ricollega a quello dell'edizione precedente "Nelle disuguaglianze". Niente di più attuale. Pensiamo a Gaza. Alla base di ogni relazione c'è sempre qualche forma di disuguaglianza e di ingiustizia. Se dico "sentirsi" richiamo sempre l'altro. Ma il "chi" sfugge. Il soggetto passa qua e là, sempre immerso nella relazione. Il verbo "sentirsi" ci fa entrare subito nell'indefinito dell'azione sociale. Che fine fa il soggetto? Si sottrae, fa un passo indietro? E lo fa proprio per sentire l'altro? L'altro che è dentro di sé?
Siamo tutti, ma proprio tutti, vulnerabili, da qui le tre parole scelte come sottotitolo - attenzione cura e sostenibilità - non come qualcosa di buono in sé ma come modi concreti di stare nel mondo, forme di socializzazione, legami di interdipendenza.
Oggi parlare di attenzione, cura e sostenibilità è in controtendenza e coraggioso?
Sì certo, è in controtendenza e coraggioso ma è anche un modo intelligente, cioè profondo e analitico, utile per resistere alla autodistruzione imperante, al consumismo digitale ormai, al ritorno delle nuove forme di colonizzazione, all'individualismo. Forse in Occidente prestare attenzione e cura all'esistente, non vuol dire per forza rinunciare a sé stessi, ma può essere un modo più intelligente per continuare a fiorire. Ne saremo mai capaci?